La nostra storia comincia come tante purtroppo se ne sentono: la crisi, le difficoltà del mercato, il calo di vendite, la riorganizzazione...
O forse la nostra storia viene raccontata come tante se ne sentono, perché, a scavare poco sotto la superficie, si scopre che le cose non sempre sono così banali come si vuol far credere.
La nostra storia comincia un pomeriggio della fine del maggio scorso, in una calda sala della Confindustria Genova, dove la RSU e le OO SS incontrano la dirigenza di Esaote e già da questa inquadratura qualcosa dovrebbe farci sospettare che non è un incontro come gli altri, perché il lato del tavolo solitamente occupato dall'azienda è stranamente gremito: l'AD ed il presidente, certo, insieme al capo del personale, ovvio, ma anche un paio di facce nuove (consulenti, ci dicono) e tutti i dirigenti di prima fascia (una decina di persone mai viste tutte assieme).
E dopo poco ci rendiamo conto del perché tutta quella gente si trovi lì: siamo una ditta di circa 680 persone in Italia, con due stabilimenti produttivi a Genova e Firenze e il piano industriale che ci stanno illustrando prevede tra esuberi, esternalizzazioni, trasferimenti collettivi e cessioni di rami d'azienda l'uscita di più di 200 persone, a fronte di un fumoso rilancio che non si sa bene su quali basi poggi e dove voglia arrivare...
200 persone su 680... praticamente uno ogni 3... sembra di essere davanti ad una rappresaglia in tempo di guerra, una decimazione in piena regola....
La trattativa non parte neanche, perché veniamo subito messi di fronte al fatto che bisogna formalmente accettare il piano industriale per andare a parlare degli esuberi e degli ammortizzatori - uno dei consulenti che abbiamo di fronte pare faccia questo di mestiere: il riorganizzatore di aziende, il destrutturatore, l'abile provocatore - e al nostro rifiuto il gesto plateale di strapparci i fogli in faccia riesce solo a darci l'impressione di trovarci dentro una rappresentazione teatrale.
Da subito cominciano le classiche tappe di queste vertenze: scioperi massicci, incontri con tutte le istituzioni (comuni, province, regioni), aperture di tavoli al MISE, ma ci spingiamo anche oltre: interessiamo parlamentari ed europarlamentari toscani e liguri, andiamo a fare un'audizione al Senato della Repubblica, scriviamo noi un piano industriale alternativo che illustriamo a stampa ed istituzioni.
Anche l'azienda si muove per schemi noti: mette a luglio 53 persone in CIGS a zero ore dal venerdì al lunedì, andando a colpire tutti i reparti e mietendo anche tra categorie protette, delegati RSU, famiglie monoreddito: un atto di forza per dimostrare che si va avanti con o senza il consenso dei lavoratori.
Ma l'azienda sottovaluta i suoi lavoratori: non hanno capito i nuovi dirigenti ed il super-consulente in che ditta sono capitati... non sanno che noi facciamo un lavoro in cui siamo parecchio bravi e di cui andiamo parecchio fieri: noi lavoriamo nel biomedicale, noi costruiamo macchine complesse, ecografi e risonanze magnetiche, e combattiamo da sempre contro colossi come General Electric, Siemens, Hitachi, Philips... nella nostra ditta sia i ricercatori che gli operai sono altamente specializzati, noi siamo una di quelle realtà che molti amano definire le "eccellenze italiane"...
I nostri dirigenti non hanno capito che i tentativi di mettere gli stabilimenti in competizione non attecchiscono e che colpire i colleghi mettendoli in cassa è solo un'operazione che tende a unirci ancora di più, a farci cambiare le regole del nostro fondo interno di solidarietà perché parte dello stipendio di tutti possa andare ad integrare il reddito di chi è stato punito per essere da esempio per gli altri. Ma, soprattutto, non hanno valutato il fatto che per il tipo di lavoro che facciamo, siamo tutti lavoratori abituati a pensare con le proprie teste, per cui ci rendiamo tutti conto che quello che vogliono venderci come “piano industriale” è invece un piano che di industriale ha veramente poco...
E qui possiamo cominciare a scavare un poco quella che è la superficie di apparente ordinarietà di una delle tante ditte in crisi, partendo proprio dalla crisi, che nel nostro caso non esiste, perché il calo di bilancio del 2013 è dovuto a diversi fattori: il cambio della modalità di fatturazione (da magazzino a consegna), la passività delle controllate, la perdita di diversi milioni di euro in cambi monetari. Tutte cose, insomma, che non c'entrano nulla con una difficoltà di vendita dei prodotti, ma che molto c'entrano con gestioni finanziarie...
Anche la creazione di due nuove società da due reparti aziendali sembra tanto un'operazione finanziaria, finalizzata a vendere separatamente due pezzi di azienda particolarmente appetibili.
L'operazione di esternalizzazione della produzione di Genova e del contemporaneo trasferimento della Ricerca e Sviluppo software da Firenze a Genova rappresenta, infine, un capolavoro di acrobazia imprenditoriale: secondo il piano, Genova viene colpita perdendo gran parte della risonanza, ma si cerca di riempirla di un contenuto hi-tech deportandovi ricercatori in massa... perché Genova deve trasferirsi nel polo tecnologico degli Erzelli, ma come potrebbe farlo decorosamente se fosse svuotata di quella che era la sua peculiare vocazione innovativa, ovvero il reparto di risonanza magnetica? Bisogna quindi rivestirla di un manto di dignitosa scientificità agli occhi degli investitori: portiamo qui il cervello dell'azienda, in modo che si possa dire che Genova è uno stabilimento ad elevato contenuto tecnologico e di innovazione. E Firenze? Si ricompenserà con investimenti nella progettazione e produzione di sonde, investimenti ad oggi solo promessi e che l'azienda, sebbene la richiesta venisse dalle istituzioni, non è stata disposta a formalizzare.
Il cuore della nostra vertenza è tutto qui, in questa triangolazione tra esternalizzazione, trasferimento e promessa di investimenti: una quadratura del cerchio che è realizzabile, però, solo in apparenza, perché i ricercatori fiorentini, come abbiamo detto a tutti i tavoli di confronto e a tutti i livelli aziendali ed istituzionali, non si trasferiranno, almeno non nel numero che possa considerarsi sufficiente affinché i nuovi prodotti possano essere sviluppati nei tempi previsti.
Questo fatto oggettivo mette a repentaglio tutto il castello di carte che la nostra dirigenza ha costruito, perché senza un progetto vero ed una visione condivisa del futuro aziendale, i lavoratori non sono disposti a seguire un piano che probabilmente porterà solo profitti nelle tasche degli azionisti o che potrebbe essere il preludio di una vendita a pezzi della ditta; senza una condivisione delle informazioni e degli obiettivi, semplicemente, non sussiste più il rapporto di fiducia tra chi lavora e chi dirige e che è la base di qualsiasi percorso che proietta una realtà industriale innovativa verso nuove sfide e nuove opportunità.
La nostra vicenda probabilmente si concluderà tra pochissimi giorni come molte altre nel nostro paese: l'azienda, forse, alla fine porterà a termine quello che si era prefissa di fare fin dall'inizio, le istituzioni che ci hanno supportato in questi mesi prenderanno atto che pur facendo il possibile non sono state in grado di cambiare il corso della vertenza, noi lavoratori elaboreremo la sconfitta con l'orgoglio di aver fatto tutto ciò che era necessario e doveroso fare. Ma alla fine, in questo scenario, chi può dire di uscire vincitore da questa storia? L'azionista bancario-finanziario che guadagnerà qualche milione di euro, sì certo, ma poi dovrà andarsi a cercare un'altra ditta da sfruttare, spremere, gettare ed alla lunga questo gioco non dura, perché il patrimonio industriale, come il petrolio o il gas naturale, non è una risorsa infinita e se non ci si investe non è neanche una risorsa rinnovabile...
Alla lunga, quindi, ci si rimetterà tutti come sistema paese, perché si continueranno a perdere non solo posti di lavoro, ma conoscenze e competenze, vera ricchezza di una nazione.
Fino a quando la nostra politica economica non uscirà da una visione del futuro tipica del mondo finanziario - il beneficio individuale a breve termine - e non entrerà in una logica industriale - il benessere collettivo a lungo termine - non ci sarà modo di uscire dalla spirale di questa autodistruzione.
E' nostro dovere, come cittadini, come lavoratori e come sindacalisti, pretendere da chi ci governa di varare un piano industriale di ampio respiro, che possa portarci fuori da decenni di stagnazione e mancanza di prospettive, altrimenti la storia di Esaote sarà una storia come tante, dalle quali, ed è la cosa che fa più male, non si sarà imparato nulla.
Alessandra Scoscini - RSU FIOM ESAOTE